Un evento che non è solo cronaca: è memoria, è emozione, è cultura pop. Parliamo di uno strumento che non ha soltanto accompagnato la nascita del suono dei Beatles, ma ne ha plasmato l’identità sonora, diventando simbolo tangibile di un’epoca e di un’estetica musicale irripetibile. E se oggi quel basso è tornato nelle mani del suo legittimo proprietario, non possiamo che fermarci un attimo e riflettere su ciò che questo significa, al di là del valore economico. Perché sì, lo strumento in questione potrebbe valere anche dieci milioni di euro, ma il suo peso storico e affettivo non è quantificabile.
Era il 1961 quando un giovane McCartney, ancora lontano anni luce dal diventare Sir Paul, si aggirava tra i vicoli di Amburgo in cerca di uno strumento economico ma dignitoso. Il Fender, che all’epoca era lo standard dei professionisti, costava troppo. La scelta ricadde quindi sull’Höfner 500/1, acquistato allo Steinway Musikhaus per sole 30 sterline. Una cifra irrisoria, ma che si sarebbe rivelata uno degli investimenti più significativi della storia della musica.
Il modello, noto anche come “violin bass” per la sua inconfondibile forma, aveva un corpo cavo e un peso ridottissimo, perfetto per il fisico snello di Paul e per il suo stile da mancino. Da lì in avanti, quel basso avrebbe accompagnato il gruppo nei primissimi concerti al Top Ten Club di Amburgo e in studio, durante le registrazioni dei loro primi successi.
“Love Me Do”, “She Loves You”, “Twist and Shout”. Basta solo citare questi titoli per evocare un’epoca intera. E a fare da colonna vertebrale a quei brani c’era proprio lui: l’Höfner. Con il suo timbro rotondo, morbido, mai invadente, ma sempre presente al punto giusto, lo strumento è diventato la voce sottile ma inconfondibile che legava insieme la sezione ritmica dei Beatles.
Non era solo una questione di estetica – che pure contava, e molto, nel contesto di una band che avrebbe cambiato anche l’immaginario visivo del pop. Era una questione di suono, di ergonomia, di sintonia tra musicista e strumento. McCartney l’ha sempre detto: quello era il suo basso, quello che sentiva più naturale tra le mani.
Nel 1972, nel retro di un pub a Notting Hill, il basso scompare. Nessun comunicato ufficiale, nessun sospetto concreto. Solo un lungo silenzio durato più di mezzo secolo. Si parlò di furto, di passaggi di mano poco chiari, di vendite sottobanco. Ma come sia potuto sparire uno degli strumenti più iconici della storia della musica è rimasto un mistero. Fino a poco tempo fa.
Ed è proprio l’assenza – quella sensazione quasi fisica di vuoto – ad aver alimentato nel tempo il mito attorno a questo strumento. Perché gli oggetti, quando scompaiono, non smettono di esistere. Continuano a vivere nei racconti, nei sospiri, nelle fotografie d’epoca, nei filmati in bianco e nero.
Nel 2018, sulla scia di un rinnovato interesse per la storia degli strumenti legati ai Beatles, nasce il Lost Bass Project. Una sorta di indagine musicale su scala globale, costruita come un archivio collaborativo, un puzzle dove ogni appassionato poteva inserire un tassello.
Cinque anni di ricerche, testimonianze raccolte in forma anonima, incontri fortuiti e vecchie fotografie sbiadite. Poi, finalmente, la svolta. Il basso viene ritrovato, riconosciuto, autenticato. Ha ancora la sua custodia originale, mostra i segni del tempo – inevitabili – ma è in buone condizioni. Paul McCartney stesso ne conferma il ritorno. Un finale degno della migliore narrativa rock.
Stabilire il valore di questo strumento è un esercizio tanto affascinante quanto limitante. Dieci milioni di euro, dicono alcuni esperti. Ma in verità, stiamo parlando di un artefatto culturale, un’icona che appartiene a tutti, non solo a Paul. È come ritrovare il microfono originale con cui Martin Luther King pronunciò il suo “I Have a Dream”, o la macchina da scrivere con cui Orwell batté “1984”.
Il valore di questo basso non è racchiuso nel legno o nei pickup. È tutto nella sua storia. Nella sua voce. Nella connessione emotiva che ha saputo generare.
“Ho avuto tanti Höfner, ma quello antico è sempre stato il mio preferito.” Le parole di Paul McCartney sono semplici, sincere, eppure contengono tutta la poesia che ci si può aspettare da un artista che, a più di ottant’anni, non ha mai smesso di fare musica.
Chiunque abbia mai suonato uno strumento, anche solo per hobby, conosce quel legame viscerale che si crea con quell’unico strumento, il primo, quello delle “prime volte”. Ritrovarlo, dopo mezzo secolo, è come riabbracciare una parte di sé.
Ci sono strumenti che diventano sinonimi dei loro proprietari. La chitarra di Hendrix, il piano di Ray Charles, il sax di Coltrane. Non sono solo oggetti: sono estensioni della loro voce artistica. E il basso di Paul McCartney rientra perfettamente in questa categoria.
Ogni graffio, ogni imperfezione racconta una storia. Ogni corda, ogni vite, è testimone di notti insonni, di studi polverosi, di palchi improvvisati. Il valore affettivo supera quello commerciale, il valore culturale ingloba quello sonoro.
La vicenda del basso Höfner rubato e ritrovato è molto più di una curiosità da raccontare agli amici appassionati di rock. È una lezione di memoria, di identità, di amore per la musica. È la dimostrazione che certi legami non si spezzano, che certe storie non finiscono, anche quando sembrano perdute per sempre.