Sgomento, incredulità e rabbia sono i sentimenti che predominano da tempo nel nostro paese per la violenza contro le donne e per i femminicidi che non si fermano. Gli ultimi in ordine di tempo quelli che anno aggiunto all’elenco delle vittime innocenti, Ilaria Sula e Sara Campanella e che hanno scatenato nuove proteste e la mobilitazione in ogni luogo sociale.
Ma nelle ultime ore si ritorna a parlare della sentenza di Filippo Turetta, l’omicida di Giulia Cecchettin. La sua azione violenta ha suscitato una serie di discussioni e riflessioni, non solo sulla gravità del suo gesto, ma anche sulla natura stessa della violenza. Una delle affermazioni più discutibili riguarda l’idea che Turetta non volesse “infierire” su Giulia, un concetto che merita un’analisi attenta. Potrebbe sembrare che la violenza, per sua natura, sia un atto di sopraffazione, e che l’autore dell’omicidio, nel non volere “infierire”, stia cercando di giustificare il proprio comportamento come dettato da una reazione emotiva incontrollata. Tuttavia, è davvero possibile ridurre un atto di violenza così estremo a una semplice esplosione di rabbia o di incapacità di controllo?
La violenza non è mai un atto casuale. In particolare, quando si parla di un omicidio con 75 colpi, non possiamo parlare di un gesto che sia stato eseguito senza una precisa intenzionalità. È difficile pensare che qualcuno, in preda a un impulso momentaneo, possa infliggere un numero così alto di coltellate senza una determinazione emotiva o psicologica significativa. Il concetto di “infierire”, spesso associato alla tortura o alla sofferenza prolungata della vittima, sembra troppo limitato in questo caso. Anche se Turetta non avesse avuto l’intenzione consapevole di prolungare il dolore di Giulia, il risultato finale è lo stesso: una morte violenta e ingiustificata.
La distinzione tra “infierire” e “uccidere” potrebbe sembrare sottile, ma è fondamentale. Anche senza un desiderio di infliggere sofferenza continua, il semplice atto di infliggere così tante ferite è di per sé una forma di violenza che va oltre l’idea di un gesto impulsivo e privo di premeditazione. Ogni colpo inferto rappresenta una scelta, una decisione che, pur non essendo necessariamente premeditata, ha comunque un peso significativo.
Se Turetta fosse stato un killer esperto, un professionista dell’omicidio, probabilmente avrebbe agito in modo “più pulito”, come si dice nel linguaggio degli esperti di crimine. Un assassino preparato avrebbe saputo ridurre il numero di colpi, mirando in modo più preciso e rapido agli organi vitali, senza lasciar trasparire la brutalità di un gesto incontrollato. In questo senso, la tecnica sarebbe stata sicuramente più raffinata, il risultato sarebbe stato ottenuto con minor fatica e forse con minor sofferenza per la vittima. Tuttavia, è importante sottolineare che la violenza di Turetta non è meno grave o meno significativa solo perché non ha usato una tecnica “professionale”. La quantità di violenza inflitta è una chiara testimonianza della determinazione distruttiva che ha guidato l’atto. La tecnica, in questo caso, non giustifica nulla: l’omicidio è il risultato di un’azione determinata, che ha avuto come esito la morte violenta di Giulia.
L’Inesperienza e la Crudeltà. Cosa ci Dicono le 75 Coltellate?
Una delle possibili giustificazioni per l’omicidio di Giulia potrebbe risiedere nella presunta inesperienza di Turetta. Alcuni sostengono che il giovane non avrebbe saputo gestire l’impulso in maniera adeguata, portandolo a un’escalation di violenza spropositata. Eppure, questo argomento non può essere utilizzato come una vera attenuante. Le 75 coltellate non sono un errore casuale o una reazione che è sfuggita al controllo di Turetta. Al contrario, sono l’espressione di una crudeltà e di una violenza che, pur non essendo premeditate, hanno avuto un impatto devastante. La quantità di colpi inflitti non parla di inesperienza, ma di un atto di crudeltà pura, di un’esplosione emotiva che ha travolto la vittima senza alcuna pietà.
Le polemiche che infuriano intorno a questo caso sono sintomatiche di un tentativo di comprendere se e come Turetta possa essere giustificato per il suo atto. Ma la verità è che l’omicidio, con il suo numero devastante di colpi, è una manifestazione di violenza che non può essere facilmente spiegata con la sola idea di un impulso incontrollato. Anche senza il desiderio consapevole di infliggere sofferenza prolungata, la sua azione rimane una manifestazione di una rabbia incontrollata, di una volontà di annientamento che va oltre il semplice gesto fisico.
Ciò che emerge è che la violenza di Turetta, pur priva di una pianificazione razionale, è comunque il frutto di un atto determinato e cruento. L’idea che un “killer esperto” avrebbe agito in modo diverso non cambia la realtà: 75 colpi sono la manifestazione di un’intenzione distruttiva che va al di là della tecnica e della efficacia dell’esecuzione. Anche se non vi fosse l’intenzione di prolungare la sofferenza di Giulia, la morte che ha inflitto non è meno tragica o meno violenta. La quantità di violenza e la brutalità del gesto parlano chiaramente di una crudeltà che non può essere ignorata o ridotta a un semplice errore dell’inesperienza.
Le polemiche e le riflessioni che ne seguono non possono far dimenticare un aspetto fondamentale: un atto di violenza, sia esso impulsivo o premeditato, rimane comunque un atto di annientamento della vita, una manifestazione di forza distruttiva ineluttabile.
I femminicidi inaccettabili, la brutalità della violenza e l’incapacità dell’autocontrollo. Un’analisi sul caso Turetta
Nei giorni in cui il paese è scosso dagli ultimi due femminicidi di Roma e Messina ai danni di Ilaria Sula e Sara Campanella, ritorna alla ribalta della cronaca il caso di Filippo Turetta, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Giulia Cecchettin. Per i giudici della Corte D'Assise di Venezia aver inferto 75 coltellate non sarebbe stato "un modo per crudelmente infierire o per fare scempio della vittima", ma "conseguenza della inesperienza e della inabilità" di Turetta.
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